La Palermo degli anni Ottanta era una Palermo surreale, devastata. La città fu teatro di una vera e propria guerra di mafia per il controllo del territorio tra i Corleonesi, guidati su tutti da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, e la fazione capitanata invece da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Diversi erano stati i tentativi delle istituzioni di porre un freno a quello spettacolo macabro con indagini di polizia, nuove leggi, ma tutto naufragò contro la solidità di Cosa Nostra.
Il pool antimafia nacque proprio in questo scenario e per occuparsi esclusivamente del fenomeno. I successi che la magistratura stava mietendo vennero visti dai leader mafiosi come degli oltraggi. Fu difficile accettare che dei rappresentati di uno Stato, che si era dimostrato spesso assente ed incapace di arrestare il proliferare dell’epidemia mafiosa, ora stessero minacciando l’egemonia e gli affari delle cosche.
Giovanni Falcone ed il suo amico e collega Paolo Borsellino erano i più brillanti emblemi della lotta alla criminalità organizzata. Quella che intrapresero fu una vera e propria battaglia. Il colpo più duro che il giudice e la magistratura infersero a Cosa Nostra era stato il Maxiprocesso di Palermo, iniziato il 10 febbraio 1986 e terminato il 30 gennaio 1992. Ben 475 imputati che dovettero rispondere di accuse gravissime come: omicidio, traffico di stupefacenti ed associazione mafiosa.
Furono 19 gli ergastoli e 2665 gli anni di reclusione. Un processo colossale che, come un terremoto, minò fino alle fondamenta la complessa e stratificata selva di crimine e violenza, ove i principali esponenti del movimento mafioso esercitavano la propria sovranità. Una tale situazione risultò inaccettabile per i boss. Chi aveva osato ostacolarli avrebbe dovuto pagare col sangue.
Quel 23 maggio del 1992 sembrava un sabato normale, uguale a tutti gli altri. Il caldo che si respirava preannunciava un’estate torrida e non solo a livello climatico. Quel giorno sull’autostrada A29, che congiunge Palermo a Mazara del Vallo, su tre Fiat Croma blindate, viaggiavano il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e i componenti della scorta. All’altezza dello svincolo autostradale di Capaci, a pochi chilometri dal capoluogo siciliano, alle ore 17.58 un boato assordante e spaventoso ruppe il silenzio.
Un ordigno potentissimo fece saltare in area l’intero tratto di autostrada dove il piccolo convoglio stava transitando. Insieme al magistrato ed alla moglie morirono tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Cosa Nostra aveva eliminato uno dei suoi più grandi nemici ed aveva sfidato apertamente lo Stato Italiano. Seguirono due processi dove vennero condannati i responsabili, ma risultò impossibile emettere sentenze contro i cosiddetti “mandanti occulti”, ovvero uomini estranei all’associazione mafiosa ma presunti concorrenti nella strage.
Malgrado sia passato un quarto di secolo da quella terribile sciagura, l’esito della guerra contro la criminalità organizzata resta incertissimo e la famosa trattativa Stato-mafia pare tutt’altro che presunta. Il fatto che Giovanni Falcone sia stato fortemente osteggiato in vita da colleghi ed esponenti della politica la dice lunga su quanto scomode fossero le indagini del magistrato palermitano.
Egli aveva capito che la mafia non è solo quella del pizzo e delle pistole ma molto di più. Radicata a livelli più alti, in quei riquadri della politica più becera e corrotta dalla quale traeva e trae, tutt’oggi, vantaggi e foraggiamento. È grave constatare che a 25 anni dalla strage di Capaci non sia stato più ricostituito un pool antimafia e che non si sia parlato più di un “super procuratore” che potesse infliggere, senza interferenze, il colpo di grazia alle mafie, ruolo che Falcone avrebbe svolto se non fosse stato assassinato.
Oggi è giusto ricordare l’uomo e il magistrato, nella speranza che il suo sacrificio possa ispirare una nuova visione delle cose, determinare una svolta di civiltà che preveda la non accettazione delle mafie a nessun livello e condizione. Solo combinando l’operato delle istituzioni con un assoluto distacco culturale della popolazione verso le mafie e tutto quello che rappresentano, le cose potranno cambiare davvero. La preoccupazione che la paura e l’abitudine possano avere la meglio c’è sempre, ma è nostro diritto e dovere crederci e lottare contro uno dei mali più grandi della nostra società e del nostro tempo. Solo così potremo dire di aver compreso Giovanni Falcone e ciò che ha realmente ha significato.
Fonti:
– Guido Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi.
– Luigi Garlando. Per questo mi chiamo Giovanni.
– Angelo Corbo, Strage di Capaci, paradossi, omissioni ed altre dimenticanze.