Femminicidio, una parola che negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere bene. Sempre più diffuso, sempre più cruento, una “punizione” per donne diventate troppo “ribelli”. La loro colpa? Non amare più il loro compagno.
Ma se questo efferato delitto poteva sembrare ad alcuni uomini troppo poco crudele, ce n’è un altro ancora più vile e subdolo: il Figlicidio, la “vendetta trasversale” degli uomini contro le loro donne. Uomini che minacciano le donne e che spesso usano i figli come arma per colpirle. E’ il caso della piccola Elena Del Pozzo, uccisa nel Catanese dalla madre a soli 5 anni. O come successe più di un anno fa a Cisterna di Latina, dove un uomo ammazzò a sangue freddo le sue due bambine e non ultima la terribile storia della piccola Ginevra uccisa a San Gennaro Vesuviano, lanciata dal padre dal secondo piano. Pochi anni fa era toccato a Jolanda, la bimba di soli 8 mesi di Nocera vittima della furia omicida del padre.
Secondo i dati di un rapporto Eures, nel 2014 ci sono stati 39 figlicidi: uno ogni dieci giorni, il 77% in più rispetto al 2013 ed in grande crescita anche rispetto agli ultimi 15 anni. Il 61,5% dei figlicidi è stato commesso dai padri mentre il 38,5% dalle madri. Considerando il periodo 2000-2014 sono stati 379 i figli uccisi dal proprio genitore. Oltre la metà di questi delitti (195, pari al 51,5% del totale) si è consumato al Nord; segue il Sud, con 108 vittime (28,5%) e il Centro con 76 casi (20%).
Antonella Delle Donne, psicologa, psicoterapeuta sistemico relazionale e consulente tecnico del tribunale di Napoli, ci spiega cos’è il figlicidio e perché secondo lei avviene.
– Dottoressa perché un uomo per colpire l’ex moglie o l’ex compagna decide di uccidere i propri figli? Cos’è il figlicidio?
Sicuramente il figlicidio è un evento multifattoriale, determinato da diverse cause, perché un singolo fattore non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi.
Sempre più spesso stiamo sentendo parlare di casi in cui, come gesto estremo, alcuni uomini decidono di porre fine alla propria famiglia, uccidendo i propri figli, la moglie ed anche se stessi. Nella mia mente il primo collegamento inevitabile è quello che è definito il “Complesso di Medea”: questa definizione è utilizzata per indicare i casi in cui la madre uccide i propri figli per vendicarsi dell’abbandono, definitivo o meno, del coniuge e risolvere le derivanti tensioni. I figli diventano allora lo strumento per infliggere sofferenza all’altro.
In questo “Complesso di Medea al contrario”, l’uomo utilizza i propri figli come vendetta estrema, come per riprendere il controllo perso. I figli vengono utilizzati per nuocere al coniuge, spesso vengono identificati con quest’ultimo. I figli non sono più individui a sé stanti, ma come un prolungamento della propria persona o della madre, in ogni caso prolungamento del proprio ed altrui fallimento. L’eliminazione del proprio figlio avviene per non condividere o lasciare ad altri qualcosa che si considera proprio.
É, per certi aspetti, un delirio di onnipotenza nei confronti dei figli che fa sì che, piuttosto che accettare la lontananza o la fine del sogno familiare, si preferisce porre fine al tutto.
– Ripensando alla strage di Cisterna di Latina, perché secondo lei l’assassino aveva già pianificato a mente lucida tutto? Mi spiego meglio: non è stato un atto dovuto ad uno scatto d’ira. Come si fa a pianificare l’omicidio delle proprie bambine?
Non è facile né possibile capire quale sia stato il “piano” del padre in questione né delinearne a posteriori un profilo psichiatrico e, in ogni caso, nessuna ipotesi può essere considerata certa. Dalle indagini sembrerebbe vi sia stata una piena e lucida pianificazione. Sono state preparate delle lettere, messi da parte dei soldi per il funerale e per l’amante, aspettati i tempi giusti perché tutto andasse come previsto. La storia di Cisterna di Latina sembrerebbe in linea con quanto detto prima. Il padre era stato allontanato dalla famiglia, non riusciva a vedere le figlie e, soprattutto, non era in grado di gestire la fine del proprio matrimonio. Il gesto omicida e suicida sembrerebbe un gesto estremo per riprendere il controllo, per dimostrarsi padrone della propria famiglia, al punto da deciderne la fine laddove non è più possibile ristabilire l’equilibrio pre-esistente. Viene anche spontanea l’associazione di genere: le figlie e la moglie erano tutte donne e chissà che nel suo immaginario le figlie non potessero diventare come la madre, solidali a lei, schierate contro di lui, fuori dal suo controllo. Dalle ricostruzioni emerge che l’uomo si sarebbe tolto la vita come gesto finale, molte ore dopo aver portato a termine il proprio piano, dopo aver ucciso le figlie e sparato alla moglie. Quando una tragedia simile si conclude con un gesto suicidario è facile vederne l’inevitabilità, la percezione che non c’è altra soluzione alle sofferenze familiari e personali.
– Alcuni uomini considerano moglie e figli una “cosa” di loro proprietà e questo li porta a commettere atti orribili come il femminicidio e il figlicidio, come nel caso di Cisterna di Latina. Ci può spiegare il perché?
L’instaurarsi di rapporti patologici, forti sentimenti di gelosia, di odio, il desiderio di vendetta, i contrasti per l’affidamento dei figli, la mancata percezione che ci sia qualcosa da salvare ma anche una scarsa rete sociale, l’incapacità di dare un nome alle proprie emozioni e gestirle, sono tutti fattori che possono portare ad un grave turbamento affettivo, ad un distacco dalla realtà, ad una inibizione della razionalità e dell’affettività e portare a gesti estremi e tragici.
– Perché secondo lei alcune donne, per il bene dei propri figli, subiscono tutto? Perché non si ribellano, perché subiscono i tradimenti, le minacce e le molestie?
Non è detto che certe decisioni vengano prese “per il bene dei propri figli”, spesso le donne hanno ben chiaro che i figli necessiterebbero di un ambiente completamente diverso. Perché una donna possa valutare l’idea di lasciare il proprio uomo è però necessario avere una buona autostima, credere in sé stesse così da immaginare di poter avere una vita migliore, di poter essere amate in modo diverso e non è così semplice. Anche la possibilità di potersi mantenere da sole economicamente è importante: molte delle donne con cui lavoro sono casalinghe o guadagnano molto poco, spesso non hanno una buona rete sociale a cui affidarsi e tutto ciò rende l’ipotesi di
poter andar via di casa molto complessa e utopistica, nonostante situazioni catastrofiche e numerose sofferenze. L’insieme di tanti elementi fa sì che pian piano si perda il controllo della situazione, si tenda a normalizzare interazioni e comportamenti tutt’altro che normali, si tenda a giustificare o minimizzare le condotte aggressive del partner e a prendersene, in parte, la responsabilità per non ammettere di essere in gabbia e non avere via d’uscita. Può sembrare assurdo ma a volte è più semplice sopportare quello che già si conosce che affrontare il cambiamento che deriverebbe dalla rottura. Ed alcune donne non hanno gli strumenti emotivi e pratici per poter fronteggiare tutto ciò che una separazione comporta. Per di più, in molte occasioni ho avuto a che fare con donne che pur raccontando le violenze subite ai propri familiari o a quelli del marito, venivano scoraggiate dal lasciare il proprio uomo ed incitate a sopportare “perché ogni tanto perde la testa ma ti vuole bene” o perché “in quei momenti non è in sé ma non è sempre così”, fino al punto da essere colpevolizzate per l’intenzione di denunciare il marito ed andar via. Si renderà conto di quanto è importante aumentare la presenza di servizi territoriali capaci di accogliere le richieste delle donne in difficoltà, luoghi in cui possano essere ascoltate, guidate, dove possano trovare sostegno emotivo e non solo. Credo sia l’unica strada per evitare che sempre più donne restino nei propri inferni familiari per la paura di non avere alcuna chance.