Svimez, previsioni disastrose per il Sud. E il Nord cresce grazie ai “terroni”
Nov 13, 2018 - Vincenzo Russo
Giovedì 8 novembre 2018 è stato presentato, nella sala della Regina a palazzo Montecitorio, il rapporto Svimez 2018 dal titolo “L’economia e la società del mezzogiorno”. Emerge dal rapporto una situazione ambivalente poiché a fronte di una crescita rilevata nel 2017 e nel 2018 ci sono alcuni problemi congiunturali che evidenziano una situazione d’incertezza per il futuro del Sud.
In particolare il persistente problema dell’accesso al credito nel Mezzogiorno e la percentuale occupazionale bassissima per la fascia più giovane della popolazione. La manovra finanziaria nel 2019 favorirà ancora la crescita al Sud, che dovrebbe avere maggiori benefici rispetto al centro-nord, dovuti al 40% circa in minori entrate e l’oltre 40% in più delle maggiori spese per cui si prevede un leggero recupero dell’economia meridionale.
Nel 2017 il PIL del mezzogiorno è cresciuto quasi nella stessa misura di quello del centro-nord, grazie alla crescita del settore manifatturiero e, in minima parte, di quello edilizio, con un dato importante che viene dai flussi turistici, con una crescita del 7,5% di viaggiatori stranieri nel Mezzogiorno e il relativo incremento della spesa turistica del 18,7%.
A fronte di questi dati positivi il report certifica ancora un divario consistente fra il centro-nord (tornato ai livelli pre-crisi) e il Mezzogiorno. Un divario che alla luce delle previsioni attuali in futuro potrebbe allargarsi ulteriormente. Le ragioni della “velocità duale” fra il Nord e il Sud della nazione si possono riassumere in una serie di fattori: in primis la marcata differenza di investimenti fra il centro-nord e il sud della nazione, con un + 3,8% al Mezzogiorno, dato positivo ma comunque distante dal + 6,2 % del resto della nazione.
Le criticità sono relative, ancora, alla contrazione della spesa pubblica con un evidente declino della spesa infrastrutturale che nel periodo 1970 al 2017 per il sud ha visto un – 4,7 % a fronte dell’appena -0,9% al centro-nord. Basti pensare che negli anni più recenti gli investimenti infrastrutturali per il meridione risultano pari a meno di un quinto del totale nazionale mentre negli anni 70 erano quasi la metà. Lo squilibrio riguarda anche l’export che per il Sud vale un più 1,6 % mentre il centro-nord mette a referto un +3%.
Il resoconto redatto dall’ente contrasta anche il luogo comune di un “Sud parassita” perché con tutti i suoi limiti il mezzogiorno contribuisce in maniera non superficiale alla crescita della nazione.
Si evidenzia come la crescita del centro-nord sia strettamente connessa all’andamento dei consumi del Sud poiché ben 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferiti alla regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al centro-nord sotto forma di domanda di beni e servizi. Non solo, si stima anche che la sola domanda interna nelle regioni del Sud attivi circa il 14% del PIL.
Il rapporto inoltre mette l’accento sulla pericolosità della mala applicazione del federalismo regionale, in particolare del federalismo fiscale, poiché l’ampliamento delle diseguaglianze territoriale sotto il profilo sociale porterà a un forte indebolimento delle capacità del welfare di supportare le fasce più disagiate della popolazione.
Sicché si parla di “cittadinanza limitata”, un termine connesso alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni che incide sulla tenuta sociale del Sud. Preoccupa anche il divario sul tasso di scolarizzazione che al sud nella fascia dei 20/24 anni è notevolmente inferiore a causa di un rilevante persistente tasso di abbandono scolastico con circa 300.000 giovani che abbandonano gli studi.
Il dato si somma al basso tasso di occupazione per i diplomati, e soprattutto dei laureati che a 3 anni dalla laurea hanno solo il 43,8% di occupati rispetto al 72,8% del centro-nord. Il rapporto evidenzia che il centro-nord è tornato ai livelli occupazionali pre-crisi mentre il mezzogiorno resta di circa 310 mila unità sotto il livello del 2008.
Si aggiunga poi un drammatico dualismo generazionale, certificato da un saldo negativo di 310 mila unità, con la sensibile riduzione di oltre mezzo milione di giovani occupati fra i 15 e 34 anni, sommata alla contrazione di 212 mila occupati nella fascia di età fra i 35/54 anni al cospetto di una crescita occupazionale concentrata quasi esclusivamente fra gli over 55.
Di fronte a questi dati l’emigrazione è considerata un fenomeno naturale nelle regioni meridionali (con la sola eccezione della Sardegna) che solo nel biennio 2016-2017 hanno registrato 146 mila abitanti in meno. Negli ultimi 16 anni il mezzogiorno ha visto partire un milione e 833 mila residenti, dei quali la metà giovani di età compresa fra i 15 e 34 anni, un quinto di questi laureati.
Del totale il 16% si è trasferito all’estero, e di questi 800.000 non sono tornati. Alla luce di questi dati si delinea per i prossimi 50 anni un percorso di forte riduzione della popolazione che nel mezzogiorno perderà circa 5 milioni di abitanti, molto di più che nel resto del paese, dove la perdita sarà contenuta a un milione e mezzo. Tutto ciò se non interverranno misure politiche tese a favorire una reale ripresa del Mezzogiorno, magari partendo dall’incentivazione del comparto agroalimentare e dei flussi turistici, ovvero gli unici settori che da anni registrano nel sud della nazione un aumento importante