Sui banchi dell’esame di maturità 2019 arriva Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, con il suo romanzo «Il giorno della civetta», del 1961.
Nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921 e morto a Palermo, nel 1989, Sciascia è stato un maestro di italiano alla scuola elementare, mestiere poi abbandonato per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Romanziere libero ed anticonformista, le sue opere sono sempre attraversate da un atteggiamento pessimistico nei confronti della giustizia unito all’intento illuminista nell’attuazione del suo progetto esistenziale e letterario. La sua tendenza ad analizzare le contraddizioni degli uomini e della sua Sicilia lo ha condotto alla constatazione di un’impossibilità di individuare una verità assoluta, poiché realtà e menzogna coesistono, inestricabilmente legate, forma di relativismo ripresa dal modello pirandelliano.
- Il giorno della civetta
Definito il primo romanzo sulla mafia, pubblicato da Einaudi nel 1961, Il giorno della civetta è un romanzo di denuncia sociale: denuncia non soltanto contro la criminalità organizzata, ma anche contro una classe dirigente corrotta e meschina, tendente a minimizzare il problema.
Sciascia intende minare le basi di quel muro di omertà che i siciliani hanno sempre opposto dinanzi al potere mafioso.
- Trama
La vicenda parte dall’omicidio del piccolo imprenditore edile Salvatore Colasberna, ucciso mentre si apprestava a salire su un autobus. Le indagini vengono affidate al commissario Bellodi, emiliano di Parma, il quale tenta di giungere ad una soluzione, ma deve fare i conti con l’omertà dei siciliani: le persone che affollavano l’autobus si dileguano, i pochi presenti rimasti si dimostrano evasivi dinanzi alle domande. Con le sue insistenze, Bellodi riesce a captare dai soci di Colasberna che le radici dell’omicidio affondano nel rifiuto dell’uomo a sottostare al potere del grande edificio mafioso. Intanto, al commissariato arriva una donna che denuncia la scomparsa del marito, Paolo Nicolosi, e rivela il nome del probabile assassino: Diego Marchica, meglio noto come Zicchinetta, che avrebbe ucciso il marito in quanto testimone dell’assassinio di Colasberna. Il nome di Zicchinetta risulta già noto alle autorità, che non avevano mai potuto arrestarlo per insufficienza di prove.
A Roma, intanto, due esponenti politici commentano le indagini di Bellodi, lamentandone l’insistenza: è chiaro che gli omicidi hanno una matrice mafiosa e pertanto lo Stato preferirebbe ignorarli piuttosto che scovarne il colpevole.
In Sicilia, Bellodi interroga un uomo legato alla criminalità organizzata, Calogero Dibella, soprannominato Parrinieddu, che si lascia sfuggire il nome del mandante del duplice omicidio: Rosario Pizzucco. Di li a poco però anche Parrinieddu viene fatto sparire e Bellodi procede all’arresto di Pizzucco e del boss mafioso Mariano Arena.
«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…»
(don Mariano Arena al capitano Bellodi)
Tuttavia, per insufficienza di prove a loro carico, è costretto a rilasciarli. Tramite i giornali, emergono i legami del boss con alcuni noti esponenti politici, tra cui il ministro Mancuso. Sfiduciato, Bellodi torna a Parma e viene a sapere che è stato fornito un alibi (fittizio) per il sicario Zicchinetta: caduta la sua accusa, cadono di conseguenza anche quelle di Pizzucco ed Arena e l’indagine di Bellodi risulta di fatto vana. Quanto a Nicolosi, viene accusato l’amante della moglie e così cade il movente mafioso come cardine della vicenda.
Nonostante la delusione, Bellodi esprime il desiderio di tornare in Sicilia e di continuare la lotta contro la mafia: «Mi ci romperò la testa».
- Significato dell’opera
Il romanzo che si apre come un racconto giallo (c’è l’omicidio e c’è un’indagine in corso), in realtà è un grido di protesta di Sciascia contro l’omertà dei siciliani, che favoriscono il clima di terrore sotterraneo instaurato dalla mafia, che gestisce l’ordine delle cose. A complicare la situazione, la complicità del potere superiore: lo Stato. Per la prima volta, dunque, Sciascia pone dinanzi agli occhi dell’Italia intera una situazione che negli anni Sessanta era spesso occultata: la denuncia dello strapotere della mafia nel Meridione.
Problema che diverrà centrale nella lotta condotta dal generale Dalla Chiesa, ucciso nell’82 da 30 colpi di kalashnikov insieme alla moglie e ad un agente della scorta. Morto perché lasciato solo, abbandonato dallo Stato. Come dieci anni dopo Falcone, e poi Borsellino.
Una fine tragica, una svolta triste, come quella con cui si chiude il romanzo di Sciascia. Ma se oggi questi nomi che hanno reso onore alla giustizia e alla dignità dell’uomo tornano sui banchi di scuola forse non tutto è andato perso. Forse la storia non è ancora finita, la vittoria non è stata ancora decretata. La parentesi finale di questa guerra tra male estremo e bene superiore viene affidata ai giovanissimi, chiamati a scegliere, a giudicare, ad alzare la testa e pensare che “ci sono stati uomini che sono morti giovani, ma consapevoli che le loro idee sarebbero rimaste nei secoli, come parole iperbole, intatte, reali, come piccoli miracoli”.
Cosa nostra, cosa vostra, cos’è vostro?!