Ieri sera Le Iene ha raccontato la storia incredibile di Pino, all’anagrafe Giuseppe Astuto, che è stato rinchiuso in un manicomio per ben 32 anni soltanto per aver rubato una pagnotta. Non è mai stato malato di mente, eppure per liberarlo ci sono voluti più di tre decenni.
Succede un giorno del 1967 in cui Pino viene mandato dalla sua mamma a comprare il pane. La povertà, la disperazione e la fame lo spinge a mangiare quella pagnotta. Tra gli schiaffi e le miserie della sua famiglia, Giuseppe ha paura di tornare a casa perché “menavano a volte i genitori”. Decide di tornare indietro e di rubare un altro pane per portarlo a casa sua e non si accorge che in quel momento rimane chiuso dentro. Quel buio segnerà per sempre la sua vita.
Tra le bontà che Pino non ha mai visto a casa sua: carne, formaggio, castagne, inizia ad assaggiare tutto di quel “paradiso” e si addormenta lì. La mattina dopo viene ritrovato dai carabinieri accompagnati dalla sua mamma con un esito del tutto inaspettato: “Signora Teresa, vostro figlio non lo vedrete più”.
E con questa frase, Pino si ricorda anche adesso il sollievo di sua madre: “Non mi ha mai potuto vedere, io non lo so perché”. È il grido disperato di quei ricordi. Perché la madre non prova nemmeno a salvare suo figlio da quel posto che gli rovinerà la vita: il manicomio.
Quel posto crudele se lo ricorda purtroppo perfettamente: grate alte di 20 metri, medici e malati psichiatrici gravi. Pino è un bambino sano che non c’entra niente con quel mondo. La cartella clinica del 1967 riporta: “Diagnosi: carenza affettiva, ricoverato per ragioni umanitarie”. Di umanitario in questa storia non c’è proprio nulla.
“Mi hanno spogliato nudo e con una scopa lunga di due metri mi hanno spinto sotto la doccia. Erano schifati”, racconta Pino alla Iena. Senza scarpe per 7 anni, senza cibo per 20 giorni, in condizioni disumani e trattato da malato. Il più giovane a parte lui aveva 40 anni.
“Dormivano due persone in un letto. Magari era pulito, magari qualcuno faceva la pipì mentre dormiva”. Poi c’erano le pillole chiamate “caramelle” per calmarlo, legato al letto come una persona che va curata. Così passa la sua infanzia.
Quando Pino chiede quando sarà liberato, sente sempre la stessa frase: “Lunedì te ne vai”, ma quel lunedì non arriva mai.
“Per me era una vita perduta, non c’erano speranze”, dice Giuseppe. Il suo corpo e la sua mente, anche se abituati a quel ambiente, non perdono la lucidità. Nel 1978 la legge Basaglia chiude i manicomi e salva anche il bambino Pino ormai diventato uomo.
Il mondo là fuori però lo guarda come un pazzo ricoverato: è ancora più difficile per Giuseppe che non è mai stato malato. Ci vorranno un po’ di anni per farlo capire agli altri. Anche i medici si rendono conto dell’ingiustizia. Giuseppe è un ragazzo libero, ma ostaggio della sua vita, impreparato ad affrontarla.
“Dove andavo io? Era troppo tardi per me”, dice Pino. Uscire dall’ospedale psichiatrico è una sfida. Nel 1999 Giuseppe Astuto lascia per sempre il manicomio. La paura di quella vita tutta da ricostruire prevale sulla felicità, tanto che richiede di essere accolto di nuovo all’ospedale ma viene rifiutato.
Dopo tanti anni, torniamo con Giuseppe al manicomio. “Questo era il reparto più brutto che esisteva nel mondo. Un camerone intero con 200 persone”, dice Pino. Del manicomio oggi non è rimasto molto, ma Pino si ricorda ogni angolo di quella struttura.
La vita di Giuseppe Astuto non è stata ancora ristrutturata, è una vita a metà. Anche se non è stato cresciuto con amore, ha comunque imparato ad amare grazie a sua moglie Angela. Non riesce a fidarsi di nessuno, tutto per la colpa delle schegge di quel passato.
Adesso Pino vive in una casa popolare che ha sistemato con le sue mani. Realizza un sogno nel cassetto che fa tenerezza, colleziona penne: “Tutte le penne che non ho avuto a scuola”. Sono sogni rubati da quel manicomio del 1967. Non sa scrivere niente a parte il suo nome e vive con una misera pensione di 270 euro. Se dovesse avere tantissimi soldi, l’unica cosa sarebbe fare felice la sua Angela: “La voglio vedere con il vestito elegante, con la piega e con i denti”.
Purtroppo il tempo che gli è stato rubato non può tornare indietro. È riuscito a chiedere solo un risarcimento: 50mila euro per il danno di non essere stato inserito in una famiglia. Soldi e cifre che non potranno mai recuperare la sua vita.
A Pino sono mancate tante cose: la scuola, l’affetto, il mestiere, cibo decente. Noi vorremmo aiutare questo signore, soprattutto il bambino che vive dentro di lui. Così decidiamo di portarlo a scuola per imparare a leggere e scrivere. Giuseppe Astuto, dopo tanti momenti di scetticismo e paura, accetta la nostra sfida. lo accompagniamo a scuola. Ci ricordiamo anche di sua moglie Angela e facciamo quello che vorrebbe farlo Pino, solo se avesse le possibilità: la portiamo dal parrucchiere per farle una piega.
Abbiamo passato qualche giorno insieme a Giuseppe e abbiamo visto sul suo viso nuove speranze, felicità e voglia di vivere. Con la tenerezza di chi ne ha sofferto tanto ci ha insegnato molte cose, a modo suo.
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