E’ uno degli argomenti del momento. Da quando Silvia Romano è tornata in Italia e ha confessato la sua conversazione spontanea all’Islam. In molti hanno messo in relazione la sua prigionia (18 mesi) al suo stato psicologico tirando in ballo la Sindrome di Stoccolma.
Ma gli psicologici hanno smentito tale ipotesi. Come dichiarato dal presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), Massimo Di Giannantonio, in un’intervista alla ‘Stampa’, questo non è il caso di Silvia.
“Si può pensare, in generale, che una persona ha crisi di angoscia e panico, o ha subito traumi durante la sua storia evolutiva, subito abusi o violenze infantili, e si trova in una situazione altamente stressante, fortemente preoccupante, privato dell’autonomia, della libertà, della capacità di autodecisione può sviluppare in condizioni di stress, cattività, prigionia delle condizioni di regressione, infantilizzazione, o anche dipendenza che può portare a sviluppare quella che nell’opinione pubblica si configura come sindrome di Stoccolma. Ma in non presenza di un quadro simile non vi è la certezza che si sviluppi tutto questo”.
Ma che cos’è la Sindrome di Stoccolma? Recentemente l’abbiamo vista nella prima stagione di una serie tv spagnola, la ‘Casa di Carta’. Monica è infatti la segreteria e amante di Arturo Roman e lavora alla Zecca di Stato. Qui è tenuta prigioniera dalla banda del Professore ma si innamora di Denver, il suo carceriere e decide di far parte del gruppo. Assumerà il nome in codice di Stoccolma.
La Sindrome di Stoccolma è infatti quella particolare condizione psicologica secondo la quale la vittima di un sequestro finisce per affezionarsi al suo carceriere. Si instaura infatti un legame di dipendenza tra l’aguzzino e la persona rapita. Essa non rientra in un disturbo psicologico infatti non c’è traccia di questa sindrome nel manuale statistico-diagnostico delle patologie psichiatriche (Dsm-5). E’ quindi considerata come un insieme di comportamenti ed emozioni che alcune persone attivano inconsapevolmente di fronte ad eventi profondamente traumatici. Una strategia di sopravvivenza che spinge a trasformare sentimenti negativi in positivi, arrivando perfino ad adottare il punto di vista del rapitore e a esaltarlo. Durante la prigionia, la vittima si abbandona al rapinatore non cercando di fuggire ma anzi diventando suo complice.
Difficile capire, per chi non lo ha vissuto, cosa comporta essere prigioniera per 18 mesi e quali strategie difensive vengono attuate da chi è sequestrato. Impossibile quindi collegare questa Sindrome a Silvia Romano come in molti sui social stanno provando a fare. Ci vorrà nel tempo per elaborare il trauma ma gli attacchi che la cooperante sta ricevendo sono carichi di odio e sessismo. Basti pensare a un video che sta girando in queste ore in rete. Nel filmato si vede una ragazza nuda correre per la città di Bologna nel 2017. Naturalmente non è Silvia ma una bufala creata ad arte. O alle tante minacce di morte ricevute e su di cui sta indagando la Procura di Milano. E persino gli attacchi dei politici con il leghista Pagano che alla Camera l’ha definita una ‘neoterrorista’. Perché oltre alla prigionia fisica c’è anche un’altra forma di costrizione che la giovane deve ora combattere, quella della libertà di pensiero e culto. E Silvia deve essere più forte non solo dei rapitori ma anche di chi diffonde cattiverie e sputa sentenze.