Aisha Silvia Romano si racconta per la prima volta dopo la liberazione dal rapimento. Era il 9 maggio 2020, in pienissima fase 2 post lockdown, quando su Twitter il premier Conte annuncia la liberazione di Silvia Romano. La ragazza era stata rapita e tenuta prigioniera per un anno e mezzo, prima in Kenya e poi trasportate in diversi stati.
Il rilascio di Silvia ha suscitato non poche polemiche, sia per la questione del possibile riscatto pagato dallo Stato Italiano, sia perché ad aspettarla sotto casa al suo rientro c’era una ressa di giornalisti – ricordiamo come sia ancora vigente il distanziamento sociale – e la ragazza ha subito molti attacchi sui social.
Ora finalmente è libera, ha passato il tempo con la sua famiglia, ed è pronta a parlare per la prima volta della sua esperienza vissuta in un’intervista rilasciata al giornale La Luce.
“Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri”
L’interesse per il volontariato – “Fino alla fine del mio terzo ed ultimo anno di università, poco prima della mia tesi di laurea, non avevo un particolare interesse nel partire e andare a fare volontariato.
Verso la fine della tesi mi interessai moltissimo all’argomento che stavo trattando: la tratta di donne ai fini della prostituzione, da lì ho avuto uno scatto nei confronti delle ingiustizie. Sono sempre stata compassionevole, molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate, ho sempre sentito molta empatia, ma il passo successivo, quello di agire davvero, di rendermi utile all’altro con l’azione l’ho fatto solo alla fine dell’università.
Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto. L’idea di continuare a studiare e rimanere qui non mi andava, volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”.
La conversione all’Islam – “Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso?
Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla. più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c’era e ci dovevo arrivare.
Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia – spiega Silvia Romano.
Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Ero disperata, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come“.
I pregiudizi sull’Islam e la questione della libertà – “Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti.
C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”
“Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso; non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo; in metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio.
La scelta del nome Aisha – “Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’ATM c’era scritto Aisha e poi è un nome che significa “viva” – conclude Aisha Silvia Romano.