In occasione della Shoah si ricorda la storia di Marisa Errico, di origini napoletane, che, a soli 8 anni, insieme ai suoi genitori, ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti. La sua esperienza si aggiunge a quella di tante altre vittime delle quali molte hanno perso la vita in quel periodo.
Figlia di madre boema e padre napoletano, dalla provincia di Caserta si spostò a Mestre con la sua famiglia. In quel periodo, tuttavia, la città veniva bombardata di continuo e decisero di trasferirsi dal nonno in Boemia. L’8 settembre del 1943 ha inizio il calvario.
“Se fossimo riusciti a partire prima probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. In quella data l’amministrazione passò in mano ai tedeschi che non accettarono le nostre documentazioni. Siamo stati chiamati a Treviso il 20 settembre perché ci dovevano dare i documenti per partire. Ad apertura di passaporto di mia madre incominciò la peggiore parte della nostra storia” – ha raccontato Marisa.
L’SS che visionò il documento scambiò il cognome della donna per quello di uno scrittore ebreo molto noto per essere parte della resistenza anti-nazista della Boemia. In realtà la donna non aveva rapporti familiari con lui, si trattava soltanto di due cognomi omofoni ma appartenenti a persone diverse.
“Non ci hanno nemmeno lasciato andare a casa, ci misero subito in un campo di concentramento. I partigiani di Tito dalla Jugoslavia vennero a bombardare il nostro treno. Siamo ripartiti il giorno dopo e da quel momento siamo passati di campo in campo.”
“Io avevo 8 anni e mezzo. Essendo figlia unica avevo imparato a stare con me stessa. Avevo gli occhi e le orecchie aperte ma naturalmente non mi rendevo conto del perché ci portassero via.”
Sulla vita nei lager: “Non possiamo chiamarla proprio vita. In uno dei campi ci vennero date delle scodelle rosse. Questa serviva alla mattina per lavarsi la faccia, poi sempre con la stessa scodella si andava a prendere l’orzo. Al suo interno si lavavano le calze o il fazzoletto, poi si ritornava a prendere la ‘sbobba’ (cibo disgustoso, ndr). Di notte l’alternativa era quella di finire sotto al letto ed essere il vaso da notte. Il giorno dopo si ricominciava.”
“Io non avevo né la stella gialla né la divisa. C’erano due mondi separati divisi da un filo spinato, uno di questi elettrificato. Dall’altro lato avevano tutti il pigiama a righe con la stella. Gli ebrei con la stella, che io non avevo e non sapevo perché, sono morti quasi tutti. Dall’altra parte del filo c’erano quelli che attraversavano gli inferi per ragioni differenti: omosessuali, gli zingari, delinquenti, politici, prigionieri di guerra, intellettuali. Tutti con triangolini di colori diversi.”
Marisa conserva ancora un peluche che riuscì a portare con sé nei lager: “Questa scimmietta me la sono portata dietro, l’avevo sempre nell’elastico tra la maglietta e gli slip. Quando ci mandavano alle docce, che talvolta servivano per uccidere, la lasciavo nel pagliericcio. Non ho trovato nessuno che facesse la spia, l’ho sempre ritrovata. Mi avvicinavo al filo spinato e i bambini mi guardavano, saltellavano di entusiasmo, facevamo buffi dialoghi con la scimmietta.”
Proprio quei bambini le fecero notare la mancanza del distintivo: “Chiesi a mia madre perché noi non avevamo la stella e mi rispose ‘non siamo ancora abbastanza importanti, forse ce la daranno quando staremo più a lungo’. E io lo dissi anche agli altri.”
Una volta liberata: “Non ho mai rivisto nessuno. Di queste cose quando siamo rientrati nessuno voleva sentirne parlare. Le persone tornate da quell’inferno neanche avevano voglia di parlarne. Ci si sentiva un po’sporchi. Quando se ne parlava si pensava sempre ‘io ce l’ho fatta, loro perché no?’, pensando alle vittime.”
Prosegue raccontando un episodio di quel periodo: “Ritornati a casa era il maggio del 1945 quando passarono sotto le finestre del nonno delle persone che cantavano ‘Funiculì Funiculà’. Mio padre corse giù e torno sopra con il muso lungo intimandoci di andarcene perchè i russi volevano riprendere tutti i prigionieri.”
Gli italiani si stavano organizzando per andare verso Praga. Rubarono un treno, riuscirono a prendere vari vagoni, ci salimmo e attraversammo la Boemia, l’Austria per arrivare dove c’erano gli americani. Di sera mentre dormivamo il macchinista scappò con la locomotiva lasciandoci lì. Poi ne venne un’altra.”
A distanza di anni, Marisa attraverso una lettera, ritorna con la mente a quel periodo: “Mi dissero che c’era una persona che mi cercava. Giorni dopo apro la cassetta della posta e trovo un foglio con su scritto ‘A Marisa, la stella che non aveva mai avuto’, firmato Iolanda. Mi si è stretto il cuore perché nella busta c’era proprio la stella di Davide. Io non conosco questa signora ma vorrei conoscerla, mi ha fatto un dolore dolce e amaro allo stesso tempo.”