Che gli italiani trovino ostico un reale apprendimento dell’inglese è ormai ben acclarato, complice forse un sistema scolastico non adeguato a questo scopo, con metodologie poco incisive e non al passo dei tempi. Nell’ultimo ventennio qualcosa è cambiato, vale a dire la familiarizzazione complessiva con nuovi termini, perlopiù basilari, la quale però non si è tramutata in apripista per una padronanza effettiva della lingua ma che è rimasta sostanzialmente un insieme sparso e slegato di parole. Ma benché, grossomodo, ne si conosca il significato la pronuncia viene spesso totalmente sbagliata, nonostante siano il più delle volte parole semplici e di uso quotidiano. E, come se non bastasse, oltre a delle lacune “grossolane” di pronuncia, il rapporto tra connazionali e l’idioma di sua Maestà la Regina sembra essere contrassegnato anche da enigmatici meccanismi e da bizzarre abitudini di difficile comprensione logica. E dunque, prima di elencare i casi degli errori fonetici più comuni, verranno analizzati, molto brevemente, alcuni aspetti che caratterizzano questo approccio quasi surreale e grottesco alla lingua inglese e che, a detta di alcuni linguisti, costituiscono dei veri e propri paradossi. Chi volesse leggere direttamente gli errori di dizione più frequenti può soffermarsi sin da subito sulla seconda parte di questo articolo.
Superfluo dire che l’inglese non è più la “lingua del futuro” …perché il futuro è praticamente già arrivato e l’idioma d’oltremanica, soprattutto nell’ultimo ventennio, è divenuto la lingua internazionale per antonomasia, la lingua “di tutti”, senza più alcun confine o appartenenza territoriale, la cui conoscenza è oramai requisito indispensabile per intraprendere esperienze lavorative al di fuori dei confini nostrani. Ma mentre nella maggior parte degli Stati europei, come ad esempio Olanda, Svezia o Danimarca “l’anglocrazia” globale ha portato nel corso degli ultimi decenni ad una ottimale conoscenza collettiva dell’inglese quasi sovrapponibile a quella di un madrelingua, grazie soprattutto a moderni ed efficaci metodi di didattica scolastica basati sull’ascolto e sulla pronuncia ed il tutto ovviamente in parallelo all’insegnamento delle rispettive lingue nazionali, senza in alcun modo andare ad intaccare l’integrità lessicale di quest’ultime… nello Stivale si sta assistendo invece ad un effetto alquanto singolare e, almeno apparentemente, incomprensibile. All’ombra del Colosseo, del Duomo meneghino, del Maschio Angioino o del Tempio della Concordia questo processo di anglicizzazione sta infatti portando ad un fenomeno linguistico decisamente bislacco, consistente soltanto in una mera “introduzione invasiva” nella loquela di Dante, Pascoli e Manzoni di lemmi britannici non solo nella forma colloquiale ma addirittura in quella formale ed istituzionale che, se da un lato comporta la nefasta conseguenza di impoverire l’identità dell’italica favella, apprezzata in tutto il mondo per la cultura in essa racchiusa, la melodica sonorità e l’ineguagliabile espressività, dall’altro non sembra migliorare affatto la conoscenza media della lingua inglese. Stando agli ultimi studi infatti l’Italia è ancora fanalino di coda in Europa per la conoscenza dell’albionico idioma con una “collocazione in classifica” che è rimasta invariata negli ultimi quindici anni, ossia un poco confortante 34^ posto in compagnia di Grecia e Spagna. Peggio solo Ucraina, Bielorussia, Turchia, Georgia e Azerbaigian. In Francia, la quale agli inizi del nuovo millennio affiancava l’Italia in questa non lusinghiera classifica, si sono invece riscontrati nell’ultimo decennio consistenti passi in avanti nell’apprendimento della lingua inglese che hanno consentito ai cugini d’oltralpe di fare un balzo di ben quattro posizioni. Ma la cosa che deve far riflettere è che nella patria di Napoleone e Robespierre, nota da sempre per l’estremo nazionalismo identitario dei suoi abitanti, eguagliabile forse solo da quello di Giapponesi e Irlandesi, le sostituzioni di parole native con quelle d’oltremanica sono pressoché inesistenti. Vocaboli come “Recovery Fund”, “Problem Solving”, “Spending Review” o “Smart working”, che hanno praticamente invaso l’italiano corrente, difficilmente si addentrano nel francese contemporaneo, anche perché sono termini perfettamente traducibili nella lingua natìa, come in italiano del resto. Addirittura i cugini arrivano a tradurre nomenclature tipiche dell’ambito informatico, il cui mantenimento nella forma anglosassone, almeno in questo caso, potrebbe essere tollerato dato che trattasi di locuzioni coniate prevalentemente negli States, patria di moltissime innovazioni in tale ambito dal dopoguerra ad oggi, come “ordinateur” (corrispondente all’italiano “calcolatore”) al posto di computer, “souris” anziché mouse o “logiciel” al posto di software. Questa piccola considerazione potrebbe far capire agli italiani che non è necessario “smantellare” o “svalutare” la propria lingua per impararne una nuova.
Ma appunto i controsensi linguistici operati dal popolo italico non finiscono qui perché oltre, come già detto, a sostituire termini neolatini con parole d’oltremanica e oltre a non averne giovato, de facto, in termini di miglioramento generale nella padronanza della lingua nel corso degli ultimi anni… ecco che buona parte degli albionici lemmi, spesso anche molto semplici e basilari, viene pronunciata ostinatamente male suscitando a volte l’ilarità dei tanti di turisti che ogni anno, covid-19 a parte, si riversano nelle amene località artistiche e paesaggistiche del Belpaese.
Alcuni esempi molto eclatanti riguardano termini inglesi che contengono la lettera “a”, che viene spesso pronunciata erroneamente da molti italiani come una “e”. Questo perché la vocale -a, in alcune parole inglesi, va pronunciata a grandi linee come una -e, chiusa come ad esempio accade per “Any”, “Anything”, oppure più aperta come in “Square”, “Share”, “Fair” o “Care” ma ciò non sempre! La spiegazione a questo errore così diffuso potrebbe essere ricondotta al fatto che forse si suole introdurre “le logiche” della lingua italiana, in cui le vocali mantengono sempre lo stesso suono (accenti aperti o chiusi a parte) in tutte le parole. Ma ciò non vale assolutamente per l’inglese, idioma nel quale invece non esistono delle vere e proprie “regole fonetiche”. In alcune parole ad esempio la a va pronunciata come una “e”, in altre quasi come una “o” ( come per small, water, walk, talk o call), in altre come una “i”, in altre grossomodo come il suono italiano di “ei” (come accade ad esempio in termini quali late, snake, made, fake, face, to take, to shave, to save ecc.), in altre ancora mediante lo “schwa” (simbolo grafico “ə”) che è un suono che non esiste in italiano e in altre ancora “addirittura” proprio come una a italiana (come, accenti più chiusi o aperti a parte, Class, Star o Far)… insomma, dipende dalla parola! Quanto appena argomentato vale per tutte le altre vocali, nessuna delle quali con una pronuncia “fissa”. Per non parlare della miriade di consonanti che letteralmente scompare nella forma parlata (come la t in listen e in castle, la w in answer, le b finali delle parole bomb e climb, la c in scissors ecc.). Ergo il concetto deve essere sempre chiaro quando ci si approccia allo studio di una qualsiasi nuova lingua: lingua diversa …logighe di pronuncia diversa. E questo vale soprattutto per l’inglese, la cui pronuncia va ascoltata di volta in volta, non “dedotta”.
Di seguito dunque una breve carrellata degli errori fonetici più eclatanti e comuni, che rende palese la portata di questo malcostume:
– Black (Nero): eh già, il colore nero, uno dei primi termini imparati alle elementari, viene quasi sempre pronunciato male da molti italiani, ossia “BlEck” …peccato però che black si pronunci paradossalmente “all’italiana”, vale a dire proprio così come è scritto, “blAck”. Ovviamente la medesima correzione va fatta per lo sbagliatissimo ma purtroppo diffusissimo “BlEck Friday”;
– Snack (Merenda/Spuntino): stesso errore fatto con black, viene spesso indicato verbalmente come “snEck” ma è una pronuncia che esiste solo per gli italiani, dato che quella corretta è “snAck”;
– Apple (Mela): il Colosso tecnologico di Cupertino, così come ovviamente l’omonimo frutto, si indica foneticamente con una familiare “a”, proprio così come si vede scritto; pertanto sarà “Apple” …non “Epple”;
– Cash back: termine molto in voga in quest’ultimo periodo, grazie soprattutto ai recenti incentivi di Palazzo Chigi contro l’evasione fiscale. Anche in televisione si sente spesso un maccheronico “chEsh-bEck”, peccato però che sia “cash” (soldi in contanti) che “back” (indietro) si pronuncino entrambi con la -a.
– Cat (Gatto): pronunciato da molti italiani come “chEt” al posto del corretto “cAt”;
– That (Quello/Che): non è “thEt” …ma proprio “thAt”;
– Pal (Amico): ebbene sì, il noto circuito di pagamento non è “PaypOl” bensì “PaypAl”. Per “Pay”, invece, va bene la -e;
– Flat (Appartamento/ aggettivo piatto): la “flEt tax” è davvero discutibile. No, ma non in riferimento alla valenza di questa recente proposta politica sulle imposte (l’ardua sentenza spetta agli esperti di economia) ma alla pronuncia, totalmente storpiata …la dizione corretta è infatti “flAt”;
– Man (Uomo) e Men (Uomini): molto spesso gli italiani dicono “mEn” sia per dire uomo che per dire uomini. Qui bisogna fare un po’ di chiarezza: in Gran Bretagna il singolare man è sempre “mAn” tuttavia negli Stati Uniti la -a tende a trasformarsi in una “-e lunga” e pertanto man potrebbe diventare “mEEn”. Invece, sia nell’inglese “britannico” che in quello “statunitense”, il plurale men si pronuncia “mEn” con una -e molto più breve, decisa e netta.
– Catch (Catturare): e no, “kEtch” non si può proprio sentire, molto meglio “cAtch”;
– Factory (Fabbrica): non è “fEctory”, ma “fActory”;
– Flash (Lampo/Bagliore/Veloce-fulmineo): se ci si vuole riferire al sistema d’illuminazione incorporato nelle macchine fotografiche sarà meglio dire “flAsh” dato che “flEsh” è la pronuncia corretta del sostantivo flesh, che in inglese è un sinonimo di “meat”, ossia carne!
– Orange (Arancia/Arancione): colpo di scena, qui stavolta la -a va pronunciata come una “i” …l’espressione corretta è “Orìnge” e non “orAnge”;
– Palace (Palazzo storico): …no, la nota squadra di calcio che milita in Premier League non si chiama “Cristal PalAs” bensì “Cristal Palis”;
– Funny (Divertente): gli italiani dicono spesso “fAnny” con una -a molto aperta. Ma dicendo così stanno invece pronunciando il termine fanny, scritto proprio con la -a, che significa vulva/genitali femminili. Per evitare questa infelice gaffe bisogna tenere a mente che funny si pronuncia con lo schwa, un suono molto più chiuso che in italiano non esiste. Tanto per rendere l’idea è lo stesso suono che si trova in parole come first (primo) e learn (imparare);
– And (congiunzione E): “End” è la pronuncia corretta di end, che significa “fine”, ma per riferirsi alla congiunzione bisogna dire “And”; tuttavia in alcune aree degli Stati Uniti and potrebbe rassomigliare vagamente a end.
– Hand (Mano): in Gran Bretagna si dice “hAnd”, ma effettivamente in alcune aree degli USA è frequente la dizione “hEEnd”. L’importante, in entrambi in casi, è pronunciare bene la -h iniziale, perché spesso gli italiani se la dimenticano oppure non la pronunciano con la dovuta intensità. Nel primo caso infatti si corre il rischio di dire “and”, nel secondo di dire “end”. In generale è importante ricordare che in inglese nella stragrande maggioranza dei casi la -h è molto intensa;
– Joule (Joule): il cognome del celeberrimo fisico inglese vissuto nel XIX secolo, così come l’omonima unità di misura del lavoro che da questi prende il nome, è “GIUUL”. Ma gli italiani si sono inventati un fantasioso “GIAUL”;
– Gap (Divario/Distanza): si pronuncia “gAp”, non “ghEp”;
– Have (Avere): “I hEve” è un vocabolo misterioso il cui significato è ancora ignoto, mentre “hAve” è uno dei verbi inglesi più importanti; negli Stati Uniti il suono vocalico di questo verbo potrebbe di primo acchito sembrare una -e, ma resta sostanzialmente più prossimo al suono di una -a;
– Rap (Rap): il noto genere musicale si chiama “rAp”, non “rEp”;
– Flag (Bandiera): “flAg”, non “flEg”.
– Minute (Minuto): in questo vocabolo, nella forma parlata, la -u si trasforma in una -i, pertanto non si dice “minUte” bensì “minite”, con ovviamente la -e finale muta, così come accade in quasi tutte le parole inglesi che finiscono per -e;
– Biscuit (Biscotto): non è “biscUit”, perché la -u pur essendoci non deve essere pronunciata, ma “bischit”;
– Juice (Succo): anche qui troviamo in sequenza una -u e una -i, ma stavolta è la -i a scomparire foneticamente, quindi non è “jUIs” ma “jUs”;
– Recipe (Ricetta): vero, spesso in inglese la -e finale di una parola non viene pronunciata, ma ciò non vale per questo vocabolo in cui l’ultima -e è da pronunciarsi come una -i accentata, pertanto non sarà “Resìp” e nemmeno “ResAip” …bensì “Resipì” o “Res’ pì”;
– July (Luglio): non è “July” ma “J-LAI”;
– Chocolate (Cioccolato): moltissimi italiani dicono “ciocoLEIT” forse perché questo termine finisce con late che, preso singolarmente, è a sua volta una parola che significa tardi/in ritardo e che effettivamente si pronuncia grossomodo come “leit”. Ma, come detto poc’anzi, purtoppo con l’inglese non si possono adottare queste “logiche”, la pronuncia non può essere “dedotta” perché ogni vocale può assumere nei vari termini suoni specifici a prescindere da eventuali altre parole che sono scritte in modo simile. Le pronunce di tutte le parole pertanto vanno ascoltate una ad una. In questo caso la pronuncia corretta di cioccolato è “ciokLət” con lo schwa. Tuttavia, nonostante sia anch’essa una pronuncia errata, “ciokLAT” potrebbe andar bene all’inizio se non si ha ancora confidenza con questo suono che in italiano non esiste, purché si usi una -a non aperta.
– Friend (Amico): non è “frIend” perché la -i rimane muta nella forma parlata; si dice “frEnd”;
– Mad (Pazzo): è “mAd” …non “mEd”;
– Fat (Grasso): “fAt”, non “fEt”;
– Ham (Prosciutto): la nota squadra di calcio inglese (il cui nome tradotto è un bizzarro “Prosciutto dell’Ovest”) si chiama “West hAm” non “West hEm”; tuttavia alcuni statunitensi potrebbero pronunciare ham con una -a che protende leggermente al suono di una -e.
– Air (Aria): “purtroppo” non si può dire “AIR”, ma per pronunciare correttamente questo vocabolo bisogna far finta che questa parola sia scritta con una -e molto lunga o, meglio ancora, da tre e; dunque la pronuncia corretta sarà “EEE”;
– Mayor (Sindaco): non si pronuncia né “mAior” né tantomeno “mEior”, ma si legge “MEEEH”, con una -e bella lunga. In effetti è alquanto curiosa questa pronuncia…
– Can (verbo Potere): è sempre “cAn” nel Regno Unito, ma in alcune aree degli Stati Uniti è diffusa la meno ortodossa dizione “chEn”. Discorso identico per bad (male): la pronuncia originale, ossia quella britannica, è “bAd” non “bEd” (che invece a sua volta è l’espressione verbale corretta di bed, che significa letto) ma nonostante ciò negli States viene a volte resa con la -e;
– Dance (Ballo-Danza/ballare): se in un locale inglese si domanda a degli amici “ShEll we dEns?” probabilmente potrebbero non capire la proposta fatta. Ma dicendo “shAll we dAns?” non si correrebbe questo rischio. Lo stesso discorso vale per l’omonimo genere musicale. Tuttavia in alcune aree degli USA dance ha un suono che effettivamente tende leggermente verso la -e, ma mai nel Regno Unito.
– Wednesday (Mercoledì): le lettere centrali di questa parola vanno letteralmente fatte fuori, quindi non si pronuncia “weDNEsday” ma “Wensday”;
– Dad (Papà): breve storia triste… si dice “dAd”. Dicendo invece “dEd” si sta perfettamente pronunciando la parola dead che significa morto, non proprio il massimo durante una conversazione lieta e spensierata;
– Rally (Raduno/Rally): “rElly” non è contemplato in nessun dizionario. La nota disciplina automobilistica su strada sterrata si chiama “rAlly”;
– Jam (Marmellata): è sempre “jAm” in Gran Bretagna. Tuttavia, volendo spezzare stavolta una lancia in favore degli italiani, è da notare che molti statunitensi pronunciano questo termine quasi sulla falsariga si share o care e quindi con un suono che tende verso la -e italiana, dunque “jEEm”;
– Sheet (Foglio di carta) e Shit (M****): Sheet nella forma parlata deve assumere il suono vocalico di una -i molto lunga, ossia “sciit”. Gli italiani invece spesso tendono a dirla con una -i troppo breve e netta pronunciando inconsapevolmente la parola shit, l’equivalente di quella parolaccia italiana che inizia con m…
– Sheep (Pecora) e Ship (Nave): anche nel caso di sheep le due -e devono essere pronunciate con una i molto lunga e dunque sarà “sciip”. Se si usa una -i troppo contratta si corre il rischio di pronunciare la parola ship, che significa nave. Comunque, sia nella parolaccia shit che in ship la -i, oltre ad essere molto breve e contratta, ha un suono che spesso tende leggermente verso la -e.
– This (Questo) e These (Questi): gli italiani spesso dicono “this/z”, con una -i abbastanza lunga, sia per dire questo che per dire questi e per di più con una -s finale che tende al suono di una -z. La differenza fonetica tra i due termini è che this (questo) ha la stessa -i di ship e di shit e dunque una -i molto breve tendente leggermente ad una -e, mentre these (questi) ha invece la stessa -i lunga di sheep e di sheet. Inoltre, in entrambe le parole, la s non deve mai sembrare una z (ronzio di mosca), ma rimanere appunto una -s “pura” (verso di un serpente), come quelle delle parole italiane “storia”, “squadra” o “sale”. La -s che tende al suono di una -z è tipica di alcune parole italiane in cui la -s precede la -m o la -l come accade ad esempio per “smemorato” o “slegato”. Anche in alcune parole inglesi, una minoranza a dire il vero, il suono della -s si avvicina a quello di una -z, ma mai in this e these.
Infine, per chi si fosse addentrato nella lettura della prefazione di inizio articolo, riprendendo il discorso circa le differenze di approccio idiomatico tra francesi e italiani, probabilmente troppo nazionalisti i primi ma decisamente esterofili i secondi, ecco un breve florilegio di termini che non di rado molti italiani pronunciano “all’inglese” nonostante siano parole latine:
– Plus (Più): in molti sono convinti sia un vocabolo anglosassone, che però è stato solo adottato dai britannici nel corso dei secoli (anche perché l’attuale Gran Bretagna fu, come ben noto, colonia degli antichi romani). Pertanto andrebbe pronunciato “Plus” …non “PlAs”;
– Premium (Premio/Ricompensa/Maggiorazione): se Cicerone ascoltasse un italiano dire con soddisfazione di aver trovato un prezzo vantaggioso per un prodotto “prImium” probabilmente si rivolterebbe nella tomba; è senz’altro “prEmium” la dicitura corretta;
– Media (Mezzo): anch’esso termine nato sul suolo italico più di duemila anni fa, plurale del latino “medium,-ii”. Sarebbe meglio dire, riferendosi al sistema di divulgazione giornalistica e telematica, “Mass mEdia” e non “Mass midia”;
– Stadium (Stadio): ennesima parola coniata ai piedi degli Appennini nei gloriosi secoli dell’Impero dell’Urbe ritornata in patria dopo aver fatto però prima un giro tra il Tamigi e i Monti del Cumberland, nelle vesti di “StEIdium” che sostituiscono il corretto “StAdium”;
– Mobile (aggettivo mobile): molti italiani, in riferimento ai moderni dispositivi di telefonia portatili, ricorrono ad uno snaturato “mobAIL”. Ma mobile non è altro che il genere neutro del latino mobilis e pertanto andrebbe pronunciato così come scritto.
Insomma, un ricettacolo slegato di nuove e vecchie parole introdotte quasi con violenza nel lessico italiano contemporaneo che non solo non aiuta, osservando i dati, nell’assimilazione ottimale della lingua anglosassone ma che viene persino storpiato goffamente a livello fonetico. Forse sarebbe il caso di cambiare le attuali prassi di insegnamento e di approccio, con nuove modalità che possano salvaguardare sia l’integrità fonetica dell’inglese che l’identità latina, nonché la dignità storica, dell’italiano… prima che venga corroborato ulteriormente questo raccapricciante, poco utile e confusionario “Itanglese”.