Una testimonianza che fa rabbrividire quella di un’infermiera dell’ospedale Santobono di Napoli, presente nel reparto del pronto soccorso all’arrivo delle bambine rimaste gravemente ferite durante il tragico crollo di Scampia. Un racconto, affidato ai canali social dell’associazione Nessuno Tocchi Ippocrate, che fa emergere tutta la drammaticità di quel tragico momento e che spinge ancora la città a stringersi nella preghiera per le piccole guerriere di questo dramma che ha sconvolto l’intera comunità.
“‘Stasera mi rompo proprio di andare a fare ‘sta notte’. Erano poco dopo le dieci, una macchina arriva all’impazzata, correndo, il clacson suonava imperterrito ancora prima di varcare il cancello dell’ospedale. Io e Federica ci guardiamo in faccia e alziamo gli occhi al cielo. Sarà la solita febbre da poche ore. Indossiamo i guanti, apriamo la porta del pronto soccorso per uscire fuori a controllare” – inizia così il racconto dell’infermiera in servizio quella tragica notte.
“‘Codice rosso, è caduto un ballatoio della Vela Celeste, stanno un sacco di bambini’ urlano i due uomini che portavano le due bambine. Io e Federica le guardiamo in volto, sporche di terra e calcinacci, lacrime e sangue, la paura negli occhi, suoniamo il pulsante di emergenza senza conoscere nemmeno la gravità della situazione, le portiamo nella stanza dei codici rossi, corrono tutti i miei colleghi, medici e infermieri. Come una mandria, ci siamo riversati tutti sulle piccole”.
“Mi giro verso uno dei due uomini e dico ‘papà vieni con me, dimmi come si chiamano così le registriamo’. Il mio sangue si è gelato e un brivido ha trapassato il mio corpo. ‘Io non sono il padre, non so nemmeno chi sono, le abbiamo prese da sotto le macerie, ce ne stanno altri, non so nemmeno se i genitori sono vivi’. Sussulto, mi guardo intorno, arriva un’altra macchina, suonando all’impazzata come prima”.
“Corro fuori, un signore mi aiuta a tirare fuori M., il suo femore era totalmente staccato dal bacino, un frammento era quasi esposto, la portiamo insieme all’interno. Neanche il tempo di girarmi ed eccole arrivare tutte, una dietro l’altra, sette bambine terrorizzate, sporche, bagnate, insanguinate. Mai in cinque anni di pronto soccorso mi sono sentita più persa, più inerme, più vuota, era tutto così surreale”.
“Non dimenticherò mai quei volti ricoperti di paura, le lacrime, lo shock sul viso di chi era presente e ha visto tutto, che senza titubare ha preso quelle bambine dalle macerie e le ha portate da noi, senza nemmeno sapere chi fossero. Ho visto i miei colleghi spendere tutte le loro forze per essere rapidi, professionali, preparati e impeccabili nonostante il caos, colleghi degli altri reparti prodigarsi per un’emergenza che non era la loro, guardie giurate che avevano finito il turno trattenersi per pulire le bambine dai calcinacci, specializzandi accanto alle bambine per accarezzarle e rasserenarle”.
“Mi ricordo di questa zia educata, la zia di tutte le bambine, che si spostava tra una barella e l’altra per star vicino un po’ a tutte. Un uomo biondo che tremava mantenendo la mano alla sua figlia più piccola. Le urla strazianti di dolore alla scoperta della più brutta delle notizie. Mi ricordo gli occhi di quella patanella di Nunzia che mi ha stretto la mano e mi ha detto ‘non ti preoccupare, io sto bene, dove sta mia sorella?’, Nunzia amore mio, tu mi hai trafitto il cuore. Mi ricordo le lacrime sul volto dei miei colleghi. Se solo penso a tutto quello che è successo comincio a piangere come se lo stessi vivendo ancora”.