«Dobbiamo lottare insieme affinché ci sia giustizia per le donne e gli uomini neri, per le vittime dei troppi soprusi della polizia, per le lotte femministe delle nostre compagne e dei nostri compagni. Che ci sia giustizia per la comunità LGBTQ+ e per i lavoratori tutti, a prescindere da genere e razza». Sono queste le parole del Movimento Rifugiati Napoli, in occasione della protesta Black Lives Matter Napoli. Al centro della polemica, l’assurdità dei decreti sicurezza e il vergognoso silenzio sulle morti nel Mediterraneo. Ma anche la speranza che porta con sé l’inedita protesta contro la corruzione a Bamako, Mali, dove la popolazione vive oppressa dal governo locale.
Pugni alzati al cielo, l’eco del battito dei tamburi e un mare di striscioni arrabbiati. Un unico coro grida I can’t breathe. Le ultime parole di George Floyd, prima di essere ucciso con quell’insopportabile pacatezza. È questo lo scenario della protesta napoletana, che si unisce alle mobilitazioni del mondo intero. Ed è nata in modo spontaneo, a partire da un evento Facebook, creato da alcuni studenti universitari. «Abbiamo deciso di creare una manifestazione apartitica. Una cosa è certa: la questione dello Ius Soli è stata strumentalizzata sia dai partiti di sinistra che da quelli di destra. Molti hanno affermato di avere a cuore le esigenze degli afro-italiani ma nulla è stato fatto a riguardo». Ce lo racconta Ark Joseph Ndulue, studente alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II, presidente dell’associazione culturale Culture Connection C.V. e co-organizzatore della manifestazione.
«Abbiamo provato a mettere al centro non soltanto il razzismo di strada, ma soprattutto il razzismo istituzionale, prima di tutto nei confronti di chi arriva. Con le leggi sul controllo dell’immigrazione che portano alla clandestinità – nessuno nasce clandestino, è la legge dello stato che ti rende tale – e, quindi, ricattabile. Penso allo sciopero dei braccianti, per quella sanatoria che somiglia a una truffa. Ma anche la comunità afro-italiana, data in pasto ai discorsi propagandistici dei politici. È la prima volta in cui nessuno ha parlato per loro. Si sono messi al centro del discorso». Sono le parole di Christian Veneri, attivista dell’Ex Opg Je so’ pazzo, che ha contribuito all’organizzazione del presidio, in maniera spontanea.
Insomma, se guardando alle lotte americane pensiamo che quel mondo sia troppo distante da noi dovremmo porci qualche domanda. Il razzismo esiste in Italia ed esiste a Napoli. Basta pensare alle condizioni dei cittadini afro-italiani, privati della loro cittadinanza a causa dei tanti cavilli burocratici previsti dalla normativa. «Per avviare le pratiche servono soldi. E molte persone fanno fatica a capire qual è l’iter da seguire. Non c’è assistenza da parte dei comuni. Secondo le leggi, un ragazzo nato in Italia è obbligato a presentare la domanda per la cittadinanza entro un anno dal compimento della maggiore età. Altrimenti diventa immigrato. E bisogna anche dimostrare di aver avuto una residenza continua in Italia, cosa molto complessa a causa delle condizioni di disagio economico in cui spesso ci si ritrova», ci racconta Ark.
Se il razzismo parte dallo stato sarà inevitabile per la società assumere posizioni – quantomeno – di diffidenza. È questo che sottolinea Abdel El Mir, portavoce del Movimento migranti e rifugiati Napoli. E ci racconta la storia di Ibrahim Manneh, un ragazzo di 24 anni, ivoriano, e frequentatore del Movimento, lasciato morire senza alcun soccorso all’ospedale Loreto Mare. «Stava male. È andato in farmacia e gli hanno dato dei farmaci a caso. Ha iniziato a vomitare sangue, così gli amici hanno provato a chiedere soccorso a una pattuglia di carabinieri, che se n’è sbattuta, lasciandolo a terra. Hanno provato a chiamare un’ambulanza, senza alcuna riposta. L’hanno portato al Loreto Mare, a piedi, dal quartiere Vasto. È stato lasciato così, ore intere, finché non è morto. Senza essere neanche visitato».
Ma la piazza è gremita e ogni faccia è diversa dall’altro. Varie anime, unite dalla messa in discussione del sistema intero. Perché «non si viene esclusi soltanto per il colore della pelle», come ci ricorda Abdel. E l’emergenza sanitaria che ha messo in pausa il nostro come tanti altri paesi non ha fatto che peggiorare le cose. Lo dimostra quel cartellone che porta in alto sulla piazza gli occhi di Ugo Russo, il 15enne ucciso da un carabiniere durante un tentativo di rapina nella notte tra il 29 febbraio e il 1° marzo. Altri striscioni chiedono giustizia per Davide Bifolco, diciassettenne ucciso da un carabiniere in servizio, al termine di un inseguimento, al Rione Traiano.
Gli spunti offerti dai cartelloni sono tanti. Ci ricordano che la vita conta, nera o bianca che sia, e che quella dei migranti dovrebbe valere allo stesso modo. A caratteri cubitali, ci dicono che è tempo di prendere posizione e fare qualcosa per il nostro futuro, perché silenzio significa consenso. Il cielo è pieno zeppo di messaggi che regalano un pizzico di speranza, proprio lì, tra il consolato e il mare.