Sud che piagnucola, parassita e sprecone. Questa è l’immagine che per decenni ci hanno abituato ad avere del Mezzogiorno, una bugia che a furia di essere ripetuta è diventata verità. Pian piano, però, la verità viene a galla, grazie agli studi di enti autorevoli come Svimez o Eurispes, ma anche per merito di articoli ed approfondimenti che negli ultimi anni hanno preso molto piede tra la popolazione meridionale, soprattutto grazie alla diffusione dei social.
Ed è così che tesi, una volta liquidate come frottole da complottisti, hanno trovato conferma da parte di coloro che certamente non hanno interesse a diffondere notizie false. Abbiamo ad esempio Unicredit, banca milanese, la candidamente ammette che il Nord è ricco perché esporta al Sud, oppure Eurispes che parla di 840 miliardi di euro sottratti al Sud, o ancora la Svimez secondo cui ammonta a 100 miliardi all’anno lo scippo al Mezzogiorno. Il Piano per il Sud, con la clausola del 34%, ammette implicitamente che negli anni fondi destinati al Sud sono stati mandati in altri lidi.
Un’altra conferma di tale discorso è l’ennesimo studio di Eurispes con cui si mette in luce la situazione della Sicilia. All’isola vengono sottratti 7 miliardi di euro all’anno in Iva e Irpef, pagate dai siciliani, che invece dovrebbero rimanere per Statuto nell’Isola. Di seguito le conclusioni dello studio.
Secondo il Presidente dell’Osservatorio sul Mezzogiorno dell’Eurispes, Saverio Romano: «sulla distribuzione delle risorse in Sicilia e nel Sud, sulle politiche fiscali adottate negli ultimi decenni, sugli investimenti che non sono stati mai fatti in infrastrutture materiali e immateriali, sulle disparità perpetrate ai danni dei cittadini del Meridione, su uno Stato che nei confronti della Sicilia ha sempre avuto un braccio lungo nel prendere e uno corto nel dare. Va fatta una definitiva operazione verità, presupposto essenziale per invertire la rotta e per togliere argomenti falsi ai detrattori del Mezzogiorno. Occorre reintrodurre, per legge, il principio secondo il quale chi produce in Sicilia, anche se ha sede legale fuori da essa, pro quota di produzione deve pagare le tasse in Sicilia! Lo Stato centrale, al di là dei governi e del loro colore, dimostri coi fatti che non ci sono cittadini di serie A – quelli del Centro-Nord – e cittadini di serie B – quelli da Roma in giù, Isole comprese».
La stessa Corte dei Conti ha segnalato come gli andamenti delle giacenze di cassa rendono problematica la situazione di liquidità della Regione, indicandone la causa, oltre che nella recessione, nel contributo dovuto allo Stato dalla Regione per partecipare al risanamento dei conti pubblici nazionali. Un contributo pro capite nel 2015 pressoché quadruplo rispetto a quello di Emilia Romagna, Toscana o Veneto e secondo solo alla Lombardia, dal Pil però enormemente più grande di quello della Sicilia. Così: «Con una mano lo Stato concorre alla spesa sanitaria dei siciliani, trasferendo alla Regione 2,4 miliardi l’anno, e con l’altra se ne riprende il triplo trattenendo per sé imposte che spetterebbero alla Sicilia» (Bossone, B. e Costa, M., 2019). Per di più, dall’1° gennaio 2017, la fetta che lo Stato preleva dell’Iva pagata dai siciliani è aumentata dal 50% circa (alla Regione ne spetterebbe il 100%, ai sensi dell’art. 36 dello Statuto) addirittura al 63,6%, lasciando così alla Sicilia solo il 36,4% di quell’Iva frutto del lavoro e del patrimonio dei siciliani (da essi versata nel fare acquisti).
Le legittime entrate negate all’Isola dallo Stato e lo sproporzionato carico di spese lasciatole sulle spalle hanno prodotto debiti per 9 miliardi che la Regione è stata costretta a fare per chiudere i bilanci. Ma con chi ha contratto debiti? Con lo Stato stesso, per mezzo della Cassa Depositi e Prestiti. Così, con una mano le viene prestato a interesse ciò che con l’altra le è stato sottratto. Quello che poi la Cassa Depositi e Prestiti presta alla Sicilia sono i risparmi postali che anche le famiglie e soprattutto i pensionati siciliani hanno concorso a generare. In altre parole, lo Stato presta ai siciliani i “loro” soldi, traendovene profitto tramite interesse.
A determinare i conti in rosso della Sicilia ha poi concorso l’averle imposto per due volte, in soli 5 anni, la rinuncia all’intero ricavato proveniente dalle cause vinte contro lo Stato, presso la Corte Costituzionale, e di obbligarla addirittura ad azzerare tutti i residui attivi che lo Stato le doveva. Tali pagamenti, che per paradosso era lo Stato a dover erogare, sono stati ritenuti dallo Stato stesso “inesigibili”.
Accanto a queste evidenze, va sfatato un altro mito: quello del numero spropositato di dipendenti pubblici in Sicilia. I dati del censimento Istat 2016 indicano che la Regione ‒ in base alla media dei dati disponibili sul 2011 e 2015 ‒ risulta ottava in Italia per quantità totale di impiegati pubblici pro capite. Mentre, la prima posizione in classifica è occupata dalla Valle d’Aosta, la seconda dalla Provincia Autonoma di Bolzano, la terza dalla Provincia Autonoma di Trento, la quarta dalla Sardegna e la quinta dal Friuli-Venezia Giulia.
Facilmente poi si cade nell’errore di mettere a confronto il numero di dipendenti pubblici delle altre Regioni italiane (a statuto ordinario) con quello della Regione Sicilia, trovando quest’ultimo più elevato di quello delle altre. In realtà, va tenuto presente che compiti e funzioni altrove affidati ai dipendenti dello Stato, in Sicilia sono propri degli stessi dipendenti della Regione. Quindi, a poter essere confrontato è solo il numero dei dipendenti pubblici nel suo complesso, perché quegli uffici che nelle Regioni a statuto ordinario sono svolti dallo Stato, in Sicilia è la Regione stessa ad assolverli. Dunque la verità è che il grosso delle funzioni pubbliche, altrove pagate dallo Stato, in Sicilia gravano sui siciliani stessi.
Come emerge poi dai dati sui Conti Pubblici Territoriali, il settore pubblico spende in Sicilia una quota complessiva pro capite bassissima: il suo valore medio per gli anni che vanno dal 2000 al 2017 fa della Sicilia la terzultima Regione d’Italia (seguita solo da Puglia e Calabria) per denaro pubblico ricevuto.
Il degrado indotto e continuamente rinnovato dal depauperamento e dall’incessante emorragia di risorse è terreno di coltura per la mafia e per l’illegalità che, contrariamente a quanto si pensi, sono conseguenza e non causa prima dell’arretratezza (ciononostante la Sicilia non si caratterizza per i più alti livelli in Italia d’illegalità economico-amministrativa; piuttosto si vede superare in questo da ben tre Regioni del Nord).