Democrazia, populismo ed elitarismo. Sul banco dell’Italia, dell’Europa e dell’intero mondo occidentale sembra tornato in auge il gioco delle tre carte. Al tavolo siedono in molti, dai nostrani Di Maio e Salvini a Macron, dai governi ungheresi e polacchi a quello pro Brexit, sino ad arrivare al presidente degli Stati Uniti Donald Trump. E poi ci sono tutti gli altri, l’opinione pubblica e gli utenti, gli internauti. Ognuno fa la sua puntata e scopre la sua carta, barricato dietro ideologie e schermi tv o social, ovattati spesso di ignoranza latente.
Un casinò demagogico in cui la democrazia sembra stretta tra le sue due coniugazioni più distanti l’una dall’altra: quella ateniese degli ottimati, un sistema in cui solo i maschi ricchi e istruiti potevano prendere parte alla vita politica; e quella russa e socialista del narodnicestvo di fine ‘800. È proprio da lì, infatti, che deriva l’abusatissimo termine “populismo”. A tradurlo per primi in questo modo nel 1891 (da narod, che significa popolo) furono gli americani del People’s party, che si ispirava più o meno agli stessi ideali del movimento russo, costituito da intellettuali favorevoli a un egualitarismo sociale, rivolto soprattutto ai contadini e agli agricoltori, in opposizione allo strapotere dello zar. Giunto in Europa agli albori del 1900, il populismo ha sempre avuto un’accezione negativa, interpretato come potere tendente a concedersi demagogicamente e in modo “ruffiano” ai voleri delle masse, senza distinzioni di sorta.
Ma forse l’esperimento più celebre in tal senso è da individuare nell’Argentina degli anni ’50 del secolo scorso, quando il generale Peron e sua moglie Evita diedero il là a un governo modellato su un puzzle di macroscopiche contraddizioni, fondato come fu su nazionalizzazione delle banche e dei servizi pubblici, riforme agrarie e sociali tipiche delle socialdemocrazie, su piani quinquennali dell’industria sovietica, sul corporativismo fascista, sul patriottismo e su un forte legame con la Chiesa. Per nove anni, dal 1945 al 1955, furono acclamati e sostenuti dalle dannunziane folle oceaniche di descamisados. Poi tutto finì finito con un ulteriore colpo di Stato a loro danno.
Nuova linfa, invece, al populismo nostrano è stata conferita nel 1965 dallo scrittore Alberto Asor Rosa il quale, con il suo “Scrittori e popolo, il populismo nella letteratura italiana contemporanea”, ha sdoganato una volta per tutte – casomai ce ne fosse bisogno – l’utilizzo di questo vocabolo.
Ma la mistica, non sempre consapevole, del populismo sembra avere la sua genesi nella mitologica e biblica figura di Barabba: «Volete Gesù o Barabba?». Il popolo sceglie il secondo: il prefetto romano Ponzio Pilato se ne lava le mani ed esegue, semplicemente per assecondare la richiesta dei più, al di là di un’assunzione di responsabilità di chi ha ruoli istituzionali. Ecco, qui si cela il pericolo: fare da amplificatore a quelli che sono i sentimenti comprensibili e giustificati di insoddisfazione, e non cercare risposte sostenibili, sensate, ragionevoli. Le folle non sempre sono sagge: aizzate a dovere e manipolate contro nemici visibili e invisibili, ragionano d’impulso, facendosi travolgere dall’onda emotiva del momento. Tagliano i rami secchi anziché ricercare le ragioni di un problema alle radici. Persino Hitler fu regolarmente eletto dal popolo. Ma, se quest’ultimo può porre il problema, non sta né a uno né a tutti offrire la soluzione. Questo è compito della democrazia.